Negli ultimi anni, ogni volta che si parla di Clint Eastwood, la domanda inevitabile è: Quando arriverà il suo ultimo film? Una curiosità che nasce spontanea, soprattutto considerando i 94 anni compiuti quest’anno dal leggendario regista e attore. Ma Eastwood, impavido e immutabile, torna dietro la macchina da presa con Giurato numero 2, un thriller legale che scuote la coscienza. Con il suo stile inconfondibile ci invita ancora una volta a riflettere sul peso morale delle nostre scelte e su come le azioni individuali possano cambiare il destino degli altri. Uscito nelle sale il 14 novembre, questo film è un atto di rivalsa per il regista, che sembra risorgere dal regno dei morti, e per noi un’opportunità di introspezione.
Giurato numero 2
Giurato numero 2 è ambientato a Savannah, in Georgia e si apre su un disegno iconografico della Giustizia, bendata e con la bilancia in mano. La dea bendata è anche la Fortuna che però tocca pochi uomini e altri mai. Il giornalista Justin Kemp (Nicholas Hoult) è un ex alcolista che non beve da quattro anni. Ora vive con la moglie Ally (Zoey Deutch) da cui sta per avere un figlio. Viene convocato come giurato, appunto il numero 2, in un processo per omicidio al posto della moglie. James Sythe (Gabriel Basso), uomo dal passato criminale, è accusato di avere barbaramente ucciso un anno prima la compagna Kendall (Francesca Eastwood, figlia del regista), dopo una violenta discussione in un bar.
In una narrazione asciutta ed efficace il regista ci porta in aula mentre gli avvocati presentano prove e interrogano i testimoni fino alle arringhe finali. Attraverso dei flashback Justin ricorda di quella famosa sera di ottobre e tutto ad un tratto scopre di essere a conoscenza della verità sul caso. Era lui, infatti, che tornando a casa, aveva urtato quello che inizialmente pensava fosse un cervo, ma che ora scopre essere Kendall. La domanda che lo assilla è: Cosa fare adesso?
Se il difensore dell’imputato pensa che “La verità è la giustizia in azione”, l’inizio e l’evolversi di questo caso mettono a dura prova tale affermazione. Dinanzi a una giuria che ha già etichettato l’imputato come colpevole per il suo passato criminale e per tratti fisici che inducono a pensare che non abbia la “faccia da bravo ragazzo” e dall’altra parte l’indifferenza di chi, frettolosamente, desidera tornare alla propria vita, condannando senza esitazione un uomo e considerandolo colpevole, si manifesta la superficialità con cui si prendono decisioni che riguardano la vita altrui. Le persone sembrano dimenticare che, in quelle circostanze, sono chiamate a decidere come le Moire sulla sorte di un altro essere umano.
È Justin a insinuare quel seme del beneficio del dubbio in una giuria che, già convinta oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza dell’imputato, è pronta a sancirne la condanna senza alcuna riflessione.
I piatti della bilancia: verità e giustizia
Clint Eastwood, con il suo sguardo affilato e incisivo, regala una prospettiva mai assoluta, un punto di vista variabile e che si sposta continuamente, saltando da un giurato all’altro, dal dubbio all’incertezza. Ogni personaggio si muove intrappolato nei propri pregiudizi in base ai quali cambiano la sua percezione della giustizia. In un gioco di contrasti tra il privato e il pubblico, tra convinzioni personali e verità processuali, il regista mostra come la giustizia sembri più un affare personale, un’arena dove le dinamiche individuali spesso prevalgono su ogni altro principio.
Con una delicatezza brutale e un’onestà intellettuale che non lascia scampo, Eastwood ci sbatte in faccia la verità sul potere legislativo americano, che quel “ sistema giudiziario, pur imperfetto, è il migliore che abbiamo” è lo specchio di un’America disillusa, dove il “the american dream” è ormai solo cenere negli occhi e parole vuote. Il volto di una giustizia fallibile, che dice più di quanto ci sia dato vedere.
In Giurato numero 2 i due pilastri di verità e giustizia non sono mai fermi: ora si tendono la mano, ora si scambiano di posto, ora si ribaltano. Se l’inizio del film ci suggerisce che la verità sia giustizia, è il dialogo cruciale di Justin Kemp a capovolgere ogni certezza, lasciandoci con un’amara consapevolezza: a volte, la verità non è giustizia.
Come in ogni suo lavoro il regista ci costringe a scrutare le pieghe della nostra coscienza, a indossare i panni di un giurato, di un imputato, di un procuratore, mettendoci di fronte a un dilemma etico e morale dal quale non c’è via di uscita. La domanda che ci lascia, sospesa e inquietante, è “Cosa avremmo fatto al posto di Justin Kemp?”, un interrogativo che non ha risposta certa, che non può essere intrappolato in una verità assoluta.
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