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Qui non è Hollywood: dove finisce la cronaca e inizia lo show? - Pop Corn Club
sabato, Aprile 19, 2025

Qui non è Hollywood: dove finisce la cronaca e inizia lo show?

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Qui non è Hollywood“, a distanza di anni, fa ritorno sul piccolo schermo una vicenda che a lungo ha attraversato le case degli italiani: l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi. Stavolta a parlarne, però, non è un’inchiesta giornalistica o una trasmissione in seconda serata, bensì una miniserie di quattro episodi disponibile su Disney+, diretta da Pippo Mezzapesa.

Un’uscita in bilico

Non poche sono state le complicazioni ancor prima della sua uscita, inizialmente prevista per il giorno 25 ottobre, in seguito posticipata al 30 dello stesso mese. A creare questo ritardo è stato il Tribunale di Taranto, in seguito al ricorso presentato dal sindaco di Avetrana, cittadina in cui hanno avuto luogo i fatti di cronaca nera. C’era il timore che il titolo originale, ovvero Avetrana. Qui non è Hollywood, potesse ledere ulteriormente l’immagine del piccolo comune, già a lungo scosso e posto al centro dell’attenzione.

Il dilemma del “tratto da una storia vera”

“Eventi, situazioni, dialoghi, personaggi e la loro caratterizzazione sono stati elaborati e romanzati dagli autori per esigenze narrative”, con queste parole in sovraimpressione, bianco su nero, inizia ogni episodio. Siamo invitati a filtrare ciò che vediamo con occhio critico e questo è molto importante. I prodotti filmici basati su storie vere sono come un’arma a doppio taglio: da un lato raccontano una verità imprescindibile, conoscibile da tutti; dall’altra rischiano di creare una falsificazione deviante, dettata dalla necessità di colmare l’ignoto, trovare delle parole ai personaggi e costruire di continuo nessi causa-effetto che funzionino e tengano lo spettatore incollato allo schermo.

La serie fa gioco forza su questa ambivalenza, che permette un’identificazione più immediata con la storia per coloro i quali hanno ancora impressa nella loro testa la grande tempesta mediatica che seguì i fatti raccontati. Sapere che ciò è accaduto per davvero, riportare alla luce l’empatia e l’apprensione che l’Italia intera ha provato, rende estremamente coinvolgente la storia al pubblico, in una serie che è tanto corposa quanto breve. Non è affatto semplice far girare un intero show su una quantità di nozioni che, per un qualsiasi altro giallo o thriller, sarebbero probabilmente solo il punto di partenza del racconto. Eppure, si rimane rapiti dalla vicenda, bramosi di saperne di più, di arrivare alla fine, di comprendere ogni singolo passaggio.

Allo stesso tempo, siamo portati a non lasciarci mai andare del tutto, a non credere alla totalità di quel che viene mostrato, a non dare quella realtà per assodata proprio perché – per assurdo – la serie dovrebbe rispecchiare la verità ma è impossibilitata a farlo. Vorremmo essere coinvolti fino in fondo, abbandonarci alla corrente, trarre conclusioni e destare opinioni sui personaggi, amarli o odiarli, ma non mancano delle remore. Questo problema non si presenta con la narrativa di finzione grazie a quel patto autore-spettatore chiamato sospensione dell’incredulità tale per cui, paradossalmente, possiamo fidarci con più tranquillità di qualcosa di dichiaratamente falso.

Tra tecnica e poesia

Qui non è Hollywood gode di una meravigliosa collaborazione tra Regia e Fotografia, caratterizzata da metafore visive e sotterfugi di composizione molto impattanti sulla psiche di chi guarda. Nelle tinte prevalenti del giallo e del ciano, le inquadrature veicolano con successo le intenzioni e l’interiorità dei personaggi in scena. Il senso di colpa che attanaglia i protagonisti è reso visibile, tangibile, invasivo, come un fantasma della mente. In uno schiocco di dita si è lì, ad Avetrana, con il cuore che sprofonda a ogni nuova speranza infranta. La macchina da presa, sguardo dello spettatore, si pone come un narratore che seleziona cosa mostrare e cosa nascondere, che aleggia come una presenza in quella casa divenuta ormai, come viene detto nella serie, una tomba.

Molto toccante, anche se già visto, è il modo di rappresentare la presenza ingombrante di Sarah al di là della sua scomparsa. È un ricordo dallo sguardo vivo, inquisitorio, consapevolmente superiore, privato da ogni ingenuità.

L’atmosfera sonora è a sua volta parecchio ricca e suggestiva. Riesce fortemente a influenzare la percezione dello spettatore, di trascinarlo con ardore nella direzione che la serie vuole far trapelare, creando una sensazione di anticipazione e presagio, di disagio assillante o di rimorso angosciante. Alcuni brani musicali molto popolari, come Tranne te di Fabri Fibra, sono in grado di farci fare un viaggio nel tempo, trasportandoci esattamente e in modo istantaneo all’anno in cui tutto è accaduto.

Ritratti viventi

Ognuno dei quattro episodi si concentra su uno dei protagonisti della vicenda, avanzando progressivamente nella narrazione; in ordine: Sarah, Sabrina, Michele, Cosima. Ogni punto di vista aggiunge un anello alla catena, lasciata volutamente socchiusa.

Le interpretazioni attoriali hanno tenuto testa alla storia, dando forma a personaggi densi, tridimensionali, verosimili all’estremo.

In particolare, Paolo De Vita è molto adatto nel ruolo dello zio della ragazza, Michele Misseri. La sua espressività disarmante mette a nudo e trascina con sé lo spettatore nel suo punto di vista profondamente toccante, lasciandolo indifeso e trafitto dal timore dell’uomo che alla sua nipotina, in mancanza di battesimo e funerale, sia negato di finire in Paradiso. Non si può non simpatizzare con questo individuo che, almeno nella serie, dimostra una tenerezza sconvolgente.

“E suennu, suennu, suennu sia, ti qua passai la Vergini Maria. Mi ddumannai, ddo sta la figghia mia. Iu risposi: Vergini Maria, ddurmiscila Tu la piccinna mia. E suennu, suennu, suennu sia”. Questa è la litania che si ripresenta come un motivetto all’interno della serie, più spesso pronunciata da zio Michele, e talvolta posta sulle labbra di Sarah stessa, della sua manifestazione. È una preghiera della tradizione meridionale, nata come ninna nanna per far addormentare i bambini. Ma, in Qui non è Hollywood, assume un significato molto più solenne e lacrimoso, legato al desiderio che la giovane vita infranta possa trovare la quiete. Scandisce, forse, i momenti più commoventi della serie.

Grande rispetto

Un altro rischio che scaturisce con facilità da film e serie documentari collegati al mondo del True Crime è l’ostentazione visiva, il gusto del macabro, il teatrino degli orrori, la bulimia della visione. Ciò, fortunatamente, non si verifica in Qui non è Hollywood. Il terribile atto di violenza è dipinto a tratti, brevi flash sparsi tra il secondo e il quarto episodio, sprazzi di una verità oggettiva mai ricalcata o spettacolarizzata. Non si sente alcuna mancanza di rispetto nei confronti dell’avvenuto, trattato con il massimo della delicatezza.

Nel complesso, Qui non è Hollywood è un prodotto impattante, la traduzione filmica di un capitolo della meno recente attualità italiana, privo di ogni moralismo. È il tributo a una storia che ancora oggi smuove le corde più profonde del nostro animo. Che si conosca la cronaca che si trova alle spalle della serie o che si senta per la prima volta il nome di Sarah Scazzi, si viene rapiti dai primi minuti dell’episodio di apertura e si esce irrimediabilmente cambiati dall’ultimo, con una sensibilità totalmente nuova.ssere madre, moglie e donna allo stesso tempo.

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